Torino si guarda allo specchio e non si riconosce.
Dalla fine degli anni '90 sembra affetta da una prosopagnosia acuta e irrimediabile, nonostante la fatica di chi tenta di farla diventare europea una volta per tutte.
Forse è colpa dei disillusi, nati troppo tardi per raccontare la Storia ma troppo presto per viverla, che in qualche modo ci invidiano senza ammetterlo.
Dicono che siamo ancora in mano alla Fiat. Quando lo sento mi viene in mente Detroit e la techno che qui si è tradotta in sperimentazione, drum'n bass, indie.
Dicono che ci siamo montati la testa ospitando le Olimpiadi, pagando lo scotto di un buco di bilancio rimbalzato su tutte le pagine di cronaca nazionale. Che non abbiamo fatto la metropolitana per autoconservazione, per vendere quante più automobili fosse possibile alla faccia dell'inquinamento atmosferico e acustico. Che l'ondata leghista ci pulsa addosso come una malattia congenita e indebellabile perché sa ascoltare il popolino stretto attorno a un idioma indistricabile.
E poi, come se non bastasse, dicono che siamo l'avamposto di una banalità costruita su classifiche e statistiche postcoloniali, fatte su misura per il mercato americano.
Ma io vedo una generazione abituata ad arrangiarsi, partorire idee, affrontare il tracollo.
Sicura della propria fame di ambizione, allenata al marketing dell'impossibile.
Che propone quello che sa fare nei pericolosissimi sottoscala di San Salvario guadagnando grida entusiastiche, o modula frequenze illeggibili a un passo dal Po sfidando orecchie analfabete, disattenzione e trendsetting.
Vedo gente pronta a scommettere sulle proprie impronte digitali pur di traghettarsi oltre la precarietà, l'emozione a cottimo, l'arte a noleggio.
Sicuri sul dove andare e come arrivarci, decisi a dismettere tradizione e obblighi in virtù di una traiettoria indeterminabile. Di quell'immagine rilfessa allo specchio dove sei sorridente, sbarbato, e quasi pauroso dell'arrivo che non avresti mai previsto.
Torino è piena di artisti, signori e signore. Chi non se n'è ancora accorto resterà sul binario a contare i minuti, mentre noi illusi incroceremo le dita aspettando il boato. Buona fortuna a loro e a quanto portano in tasca, buona fortuna a noi che applaudiremo alla fine. Perchè il sipario non sarà un bianco e nero su cui brindare nei giorni di lutto, né un gazzetta piena di litigi da sindacato, o un bollettino metereologico avverso.
Ma la Torino di cui raccontare fra dieci, venti, quarant'anni. Quella che si spartiva tra comizi e dancefloor, seminari e lotta, denunce e videoclip. Che ha riscritto le proprie credenziali con un salto carpiato ed elegante, immune al ranking di vivibilità e le Istat di passaggio.
Un posto che ha deciso da sé dove mettersi sulla mappa. Che non ha bisogno di sovvenzioni, finanziamenti o bandi per attirare l'attenzione di un'immaginaria Comunità Europea.
A cui basta premere on, sistemare il retrovisore.
E sorridere alla bellezza della sua stessa evidenza.
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